Decreto dignità: più ombre che luci
Lo diciamo senza remore né preconcetti: ci provoca più insoddisfazione che entusiasmo il cosiddetto “decreto dignità”, ossia il pacchetto di interventi sul lavoro reso noto dal governo Conte. E’ un giudizio conseguente alla dettagliata analisi tecnica del provvedimento. Non include, quindi, una sentenza sull’azione generale fin qui svolta dal governo (prevalentemente sul tema dell’immigrazione), che lasciamo ad analisi più politiche, tra l’altro in parte già espresse su queste colonne. Si tratta, pertanto, di un giudizio deciso ma, nel contempo, duttile, cioè pronto ad accogliere favorevolmente eventuali “aggiustamenti” in corsa preannunciati dagli stessi esponenti del governo, per quanto di area leghista.
Il nostro voto complessivamente negativo sul “decreto dignità”, dall’appellativo già decisamente partigiano, è frutto in particolare di alcune misure contenute nel ventaglio di provvedimenti. Non esprimiamo disaccordo, ad esempio, sul sacrosanto stop alla pubblicità per il gioco d’azzardo, sul restyling del redditometro (per quanto solo annunciato) o sull’abolizione dello split payment, cioè il meccanismo di scissione dei pagamenti con il quale le pubbliche amministrazioni versano l’Iva direttamente all’erario e non al fornitore. E riteniamo meritevole di ulteriori approfondimenti le penalizzazioni per chi delocalizza dopo aver ricevuto aiuti di Stato. Il semaforo è decisamente rosso, invece, per quei provvedimenti – i più impattanti – che mirano a rendere meno flessibile il mondo del lavoro, dando ad esempio una stretta ai contratti a termine o portando la maxi-indennità per i licenziamenti da 24 a 36 mesi, con la convinzione che questa crociata rappresenti la strada per favorire più rapporti di lavoro e soprattutto stabili.
Il ritorno a regole rigide – talvolta asfissianti – ci appare innanzitutto anacronistico. Il mondo del lavoro, in particolare in questo ultimo trentennio, è enormemente cambiato: i dirompenti processi determinati dalle nuove tecnologie e dall’automazione, pur con un inevitabile impatto negativo sul numero dei posti di lavoro (per quanto le previsioni in tal senso sono quanto mai contraddittorie), hanno la necessità di essere governati ma non ignorati. Imporre o reintrodurre paletti equivale a proporre un tuffo in quel passato pregno di ideologie cancellato proprio dalle trasformazioni epocali. La “società liquida”, per dirla con Bauman, cioè l’imprevedibilità dei tempi (e dei mercati) pone la flessibilità – e quindi i contratti a termine – come un’esigenza imprescindibile per le aziende e per le produzioni.
L’utopia della stabilità attraverso “ingessature”, oltre ad apportare eventuali maggiori oneri per le aziende (che infatti si vedranno bene dal programmare investimenti, specie quelle straniere, e soprattutto nuove assunzioni), rischia di alimentare contenziosi e di limitare quegli strumenti contrattuali che, per quanto forieri di precariato (benché apportatori di più tutele grazie a recenti provvedimenti), perlomeno assicurano uno stipendio, riducono la disoccupazione e favoriscono l’emergere del lavoro nero. Il rischio vero, insomma, non è di avere meno precarietà – gli abusi vanno comunque combattuti – ma meno lavoro.
Il richiamo alla “dignità”, poi, appare davvero incomprensibile in quanto mancano le indicazioni per una concreta azione di contrasto al vero precariato, cioè a quelle attività svolte senza l’applicazione di contratti collettivi di categoria o coperture previdenziali o utilizzando strumenti irregolari tra false partite Iva, collaborazioni simulate, part time che mascherano rapporti a tempo pieno, ecc. Storture che investono anche le aziende in quanto annullano una sana concorrenza.
Sarà opportuno, pertanto, che il governo avvii tavoli di confronto con le parti in causa per riforme che non rappresentino una “retromarcia” con norme antistoriche, ma tengano conto dell’evoluzione dei tempi e di ciò che determina in un mondo del lavoro sempre più complesso.
Domenico Mamone