Tav ad alta tensione
I Cinquestelle, sin dalla nascita, hanno calamitato il consenso di molti cittadini interessati a cause ambientaliste. Sebbene in Italia i movimenti verdi non abbiano mai raggiunto grandi numeri in politica (a differenza, ad esempio, di Germania e Nord Europa), le occasioni di contrapposizione ad opere impattanti hanno alimentato sicuri bacini elettorali a livello locale.
La clamorosa conquista del Comune di Parma da parte di Federico Pizzarotti nel 2012 è stata favorita proprio dalla battaglia contro l’inceneritore, così come gli ottimi risultati grillini in Piemonte e in Puglia si sono avvalsi delle crociate contro l’alta velocità Torino-Lione e, al Sud, contro il gasdotto pugliese Tap o gli interventi dell’Ilva a Taranto. Il M5S, tra l’altro, ha messo nel mirino anche le Pedemontane di Veneto e Lombardia e altre opere legate principalmente alla mobilità.
Non stupisce, allora, l’orientamento del governo a chiudere definitivamente l’esperienza della Tav in Val di Susa. In fondo, con coerenza, i grillini lo debbono al proprio elettorato, benché la Lega, da sempre favorevole all’opera, si senta spiazzata. Resta semmai da chiedersi quali siano i modelli alternativi a questi costanti “no” targati Cinquestelle dal momento che l’economia da sempre viaggia sull’evoluzione delle vie di comunicazione. Ma questo è un altro capitolo.
L’unica certezza, per ora, è che la scure grillina intende abbattersi sull’alta velocità. A differenza del gasdotto Tap in Puglia, dove il peso dei contratti internazionali rende impossibile cancellarlo (la stessa amministrazione americana ha preteso garanzie sul proseguimento dell’opera), l’alta velocità in Piemonte è protetta soltanto da un accordo del 2001 con la Francia. Questo renderebbe più agevole superarlo con una semplice legge, salvo eventuali risarcimenti e contenziosi: i grillini indicano solo gli 800 milioni di euro di fondi da restituire all’Europa; le opposizioni parlano di due miliardi di penali. Insomma, i soldi in ballo sono tanti. Ma i No-Tav minimizzano raffrontando ciò all’enorme costo totale dell’opera, i cui finanziamenti – lo ricordiamo – ricadono per il 40 per cento sull’Europa, per il 35 per cento sull’Italia e per il 25 per cento sulla Francia.
Il tema Tav, che nelle ultime stagioni sembrava un po’ appannato, almeno a livello mediatico (salvo gli scontri di pochi giorni fa, con gli arresti domiciliari al leader del centro sociale Askatasuna), viene, dunque, riacceso dall’ipotesi del clamoroso dietro-front italiano. E tornano navigate discussioni animate da immancabili passioni, spesso pregiudiziali, tra fautori e avversari dell’opera.
In linea generale è facile sostenere, al di là dei deliri antimodernisti, che le grandi opere sono necessarie per la crescita del Paese. Per innovarlo, per inserirlo nei contesti internazionali. E nel contempo, con atteggiamento un po’ “cerchiobottista”, richiamare la “sostenibilità” ambientale ed economica dell’opera o ricordare i diritti della popolazione locale. Conciliare i diversi interessi, specie nell’Italia delle frammentazioni, è semplice a parole, molto meno nei fatti.
Il problema vero è che la Tav, dalla storia ormai ultratrentennale, aggiunge qualcosa a tutto ciò. Rappresenta un caso a sé, un unicum divenuto però indicativo dei nostri tempi e di come le cosiddette “grandi opere” siano rimaste grandi soprattutto per i colossali scandali, gli infiniti sperperi, le infiltrazioni mafiose, i costanti provvedimenti della magistratura e anche una politica che davanti al business ha annullato storiche differenze e demarcazioni: basta soffermarsi sulla preparazione agli ultimi grandi eventi sportivi in Italia, nuoto e calcio in testa (fino al punto di rinunciare alle Olimpiadi romane anche per questo), all’infinita autostrada Salerno-Reggio Calabria, all’Expo di Milano, alla metro C di Roma, alle ricostruzioni post-sisma, allo stadio della squadra capitolina con gli arresti ancora prima di cominciare a realizzarlo, tutte opere costellate di gravi episodi di malaffare.
Certo, i rischi – per quanto molto accresciuti – che ogni grande opera finisca nei tribunali non può paralizzare un intero Paese.
Però la Tav, anche per il suo carico mediatico diluito nel tempo, ha travalicato l’essenza e gli aspetti della specifica opera infrastrutturale locale per diventare una sorta di caso-scuola da dibattito ideologico nazionale: da una parte richiamando l’esigenza di quel capitalismo etico inconciliabile con investimenti faraonici a favore delle solite imprese e risultati palesemente improduttivi nella logica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite; dall’altra, a beneficio del mondo cosiddetto antagonista, diventando una sorta di brand antisistema, appunto “No-Tav”, sulle distorsioni dei modelli di sviluppo legati all’appalto di grandi opere.
Entrambe le facce della stessa medaglia, a ben vedere, rappresentano principalmente la sconfitta della politica. Non a caso il megaprogetto ha trovato sostegni ideologici e pratici ampiamente trasversali e compatti, rinnovati da tutti i governi (anche in opposizione tra loro), da destra a sinistra, salvo minime eccezioni rappresentate da voci solitarie cadute rapidamente in disgrazia. La questione della Tav è partita in pompa magna addirittura nell’ormai lontano 1984 con il socialista Claudio Signorile ai Trasporti, supportato da Cirino Pomicino, Necci e Bernini. Pur avendo avuto qualche voce critica in Claudio Burlando, ai Trasporti nel 1996, il quale denunciò gli ingiustificati aumenti dei costi, ma anche in Franco Reviglio e Mario Schimberni, nelle loro esperienze alle Ferrovie, per il resto è stata spinta all’inverosimile specie con la partenza del general contractor nel 2002 per volere di Berlusconi. Ha scritto Alberto Statera su La Repubblica del 29 giugno 2006: “La progettazione, il finanziamento, l’esecuzione e la gestione delle opere affidate a un’unica impresa general contractor, come avviene ancora nei paesi del Terzo Mondo, senza alcun controllo dei costi, in un sistema di appalti e subappalti aperto a spartizioni e corruzioni, ad affari e politica”.
Anche ciò ha fertilizzato il terreno dei Cinquestelle come movimento antisistema, garantendone la fortuna elettorale.
C’è di più. Ad accentuare i dissidi, nel caso della Tav, va richiamato il deficit di informazione e trasparenza. Forse più per dolo che per fato. Pochissimi i dati numerici emersi, tra l’altro con affidabilità tutta da dimostrare. Scarsi gli elementi fattuali sui costi economici, dove genericamente si può affermare solo che i miliardi di lire sono diventati miliardi di euro. Carenti e spesso contraddittorie le analisi ambientali. Incompleti i numeri sul traffico di persone e merci. Insufficienti i dossier sui preventivi di spesa, di cui l’unica certezza è la loro lievitazione all’inverosimile. Ancora più nebulosi i dati sui ricavi previsti.
Per paradosso, a fornire qualche robusto strumento informativo sono state le fazioni in campo, specie quelle avverse all’opera. Ad esempio, tra le principali fonti di qualificata documentazione resta un interessante libro collettivo di una decina di anni fa, dal provocatorio titolo “Travolti dall’alta voracità”. Il volume raccoglie contributi di qualificati economisti, ingegneri, geologi, fisici, chimici, climatologi, docenti di impiantistica, analisti di appalti pubblici. Un ventaglio di esperti che dimostra come la complessità della materia richieda una pluralità di letture molto specifiche.
La gestione poco aperta al confronto, anzi molto “militarizzata” da parte dei gestori dell’opera, ha finito per enfatizzare le motivazioni avverse.
L’anti-economicità del progetto, nel libro viene argomentata da Claudio Cancelli del Politecnico di Torino: per non andare in perdita dovrebbe garantirsi non meno di 40mila passeggeri al giorno (esempio fornito dalla giapponese Tokyo-Osaka), mentre in Val di Susa siamo sui cinquemila.
L’assurda lievitazione dei costi di realizzazione è stata documentata dall’ingegnere Ivan Cicconi, scomparso di recente. Paragonando quelli dell’alta velocità in varie nazioni, emerge che Giappone, Spagna e Francia sono intorno ai dieci milioni di euro a chilometro (rispettivamente 9,3, 9,8 e 10,2) rispetto ai 96,4 del tratto Tav tra Bologna e Firenze o al 60,7 della Torino-Napoli.
L’enorme vulnus rappresentato dal grado di inserimento delle linee Tav nella disastrosa rete ordinaria ferroviaria in Italia rispetto ad altri Paesi europei, Francia compresa, è denunciato da Andrea Debernardi della società di ingegneria Polinomia di Milano. E via di questo passo.
Ecco, al di là delle contrapposizioni e degli slogan consumati come “opera irrinunciabile” o “occasione da non perdere”, che riemergono puntuali in queste ore, sarebbe preferibile superare quel “muro contro muro” che ci sta conducendo, forse, alla soluzione peggiore, cioè ad uno sperpero di risorse a fronte del nulla. Studi seri, qualificati e approfonditi, anche scevri dal roseo ottimismo, finalizzati all’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali, sarebbero più utili per adeguare il megaprogetto alla realtà dei tempi, sottraendolo anche a quell’amara immagine di cantiere supermilitarizzato, diventato il simbolo di una lunghissima guerra che richiama “combattenti” da tutta Italia, con l’emblematico supporto dello scrittore Erri De Luca.
(Domenico Mamone)